Adolfo Mutti
pittore
Adolfo Mutti nasce a Brescia il 16 gennaio 1893.
Il padre Giacomo (1855-1917) era un apprezzato decoratore mantovano che giunse a Brescia verso la fine di quel secolo dopo la morte del padre nelle campagne garibaldine in Francia, negli anni in cui Giuseppe Zanardelli assumeva un sempre più importante ruolo nella vita politica italiana. Qui conobbe e sposò nel 1884 Vittoria Zucchi (1860-1933) dalla quale ebbe otto figli, sei dei quali - tre femmine e tre maschi – sopravvissero (Ubaldo, Amelia, Jolanda, Adolfo, Alice e Goffredo); Adolfo era il sesto. La loro prima casa fu in piazzetta Tito Speri 47.
Nel 1910 Adolfo si diploma all'Istituto magistrale, presso la Scuola normale di Treviglio. L’attitudine al disegno e la sensibilità artistica lo portano ad iscriversi successivamente ai corsi di disegno della scuola Moretto, dove trova come insegnante il pittore Arturo Castelli (1870-1919).
Nel 1911 vince il Legato Brozzoni con una Testa femminile di profilo che gli consente di entrare come studente all'Accademia Carrara di Bergamo - in quegli anni diretta da Ponziano Loverini (1845-1929) - che frequenta fino al 1914. Questi anni, fondamentali per la sua formazione artistica, risultarono importanti anche per le amicizie, in particolare con lo scultore bergamasco Nino Galizzi (1891-1975), suo condiscepolo negli anni alla Carrara.
La Prima guerra mondiale interrompe gli studi, frequenta il corso allievi ufficiali a Bari e viene poi inviato come capitano di fanteria nella zona del Pasubio, in trincea sul monte Castellieri. Anni dopo, nel 1969, la partecipazione al conflitto gli sarebbe valsa l'onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto (cosa di cui non andava particolarmente fiero dal momento che è finita in un cassetto e non ne parlava mai). Compie il suo dovere, pur nella coscienza della lontananza della guerra dai valori che professa nella sua vita d'artista. E’ qui che conosce l’avvocato bergamasco Silvio Barbieri (1896-1986) il quale, pubblicando le sue memorie nel 1968, racconta: "lo - dichiarò una volta Mutti - credo che vi sia assoluta incompatibilità fra la vita militare e la pittura; o per lo meno, tra la vita militare e il pittore Mutti, v'e incompatibilità assoluta".
Nel 1920, smobilitato, rientra a Brescia, nella casa dove abita ora la sua famiglia, al quartiere Bottonaga, ed entra a far parte del laboratorio di restauro dell'antiquario Ottorino Vitale in via S. Faustino dove continua a collaborare fino al 1925, anno in cui si sposa; in quegli anni apre anche il suo studio a palazzo Ferrazzi, in via Marsala.
Nel 1921 partecipa alla Mostra nazionale della Società amatori e cultori d'arte di Torino alla quale vengono accettati (“Non era come adesso che tutto viene accettato; allora bisognava passare sotto la forca caudina del Comitato di ammissione”) due ritratti di giovani donne (una con camicetta bianca ed una con camicetta violetta) che furono poi acquistati da Alberto Magnocavallo (1868-1935) e dal collega Virgilio Vecchia (1891-1968).
Nel marzo del 1925 si sposa con la diciannovenne Ilda Guerini (1906-1954), di cui realizzerà splendidi ritratti; abitano a Brescia in via Mazzini 38 dove nel '27 nasce il figlio Giacomo (1927-2013).
Giorgio Nicodemi, direttore dei musei cittadini e suo estimatore, gli fa ottenere uno studio in alcuni locali adiacenti la Pinacoteca, dove il pittore lavorerà fino al 1930. Sempre nel 1925 una nuova vittoria al Legato Brozzoni, e quindi la partecipazione a diverse collettive alla Bottega d'arte Dante Bravo e alla Galleria di Cesare Campana (1891-1969).
Nonostante le sollecitazioni delle autorità cittadine, il giovane Mutti - allergico, come lui stesso avrebbe detto in seguito, al "saluto romano" - non aderisce al fascismo. Diviene amico del pittore Giulio Cantoni (1890-1968) e, nonostante tanta diversità in arte e in politica, di Virgilio Vecchia, personaggio di spicco della vita culturale bresciana e segretario del Sindacato Fascista degli Artisti (ma che comunque si prodigò a proteggere e promuovere gli artisti locali).
Anche in questo si evidenzia con chiarezza la sua disponibilità, “aperto all’incontro e al confronto, pronto nell’umana partecipazione nella massima tolleranza, come del resto dimostrerà, nella seconda metà degli anni Quaranta, il rapporto con Silvio Barbieri, monarchico militante, affetto non scalfito dalla contrapposizione repubblicana” (Mazza).
Nel 1926 partecipa al concorso per succedere a Loverini alla direzione dell'Accademia Carrara ma l’incarico viene assegnato ad un altro, forse anche a seguito della sua mancata adesione al fascismo: una "ingiustizia" per l'artista, che rimase indelebile nella memoria.
Le soddisfazioni dal punto di vista artistico non tardano comunque ad arrivare: nel 1928 inaugura la prima personale presso Dante Bravo, viene invitato alla XVI Biennale di Venezia con l’amico Virgilio Vecchia e lo scultore Claudio Botta (1891-1958), e in novembre partecipa alla collettiva allestita a Milano dalla "Famiglia bresciana", composta da artisti bresciani residenti in città e nel capoluogo lombardo.
Il critico Nino Fortunato Vicari (1894-1954), in occasione della personale, rileva che il pittore finalmente si libera da una condizione di "solitudine più umile che disdegnosa, più timorosa che fiera".
In occasione della “Famiglia bresciana”, Vicari lo annovera tra i migliori rappresentanti della nuova pittura bresciana insieme a Cantoni, Vecchia e Monti.
Lo stesso anno, in occasione della partecipazione alla prima Triennale bresciana dove il Premio Magnocavallo viene assegnato a Botta, sempre Vicari lo definisce "squisito artista", "il più colorista fra i pittori bresciani"; capace di "abbandonarsi con gioia" al suo "istinto di pittore nato".
Notevole in quegli anni la sua attività di ritrattista, testimoniata dalle commissioni delle più importanti famiglie bresciane: il ritratto del conte Teodoro Lechi col nipote del 1928, i ritratti delle signore Castellani del 1929 ed il ritratto del pittore Antonio Di Prata, solo per citarne alcuni.
Mutti, ha scritto Elvira Cassa Salvi, fu "uno dei pochissimi - due o tre - ritrattisti bresciani ai quali sia riuscito di immettere un senso vivo, un accento spontaneo, immediato nella formula convenuta del ritratto tradizionale".
Nel 1930 trasferisce lo studio in palazzo Bruni Conter, in via Trieste, e l’abitazione in palazzo Torri di via Gezio Calini, dove abitava il collega Piero Galanti (1885-1973). Nello stesso anno partecipa nuovamente alla Biennale, che annoverava tra i bresciani la presenza di Virgilio Vecchia, Cesare Monti (1891-1959) ed Angelo Righetti (1900-1972), una sala dedicata alla consacrazione postuma di Modigliani e le importanti presenze di altri italiani del calibro di Morandi, Carrà, Sironi, Birolli e Capogrossi.
Venezia divenne in quegli anni un riferimento, frequentata anche per le vacanze estive al Lido, rivisitando chiese e musei ed affrontando il difficile tema di dipingere la città. “E si deve dire che Adolfo Mutti in questa gara ideale, non ne è uscito sconfitto. Ha saputo vedere la laguna di Venezia con occhi nuovi, coerente con la propria personalità. Quadri tanto più gustosi in quanto non richiamano quelli di nessun maestro dipingendo suggestivi scorci della città lagunare” (Mazza).
Negli anni '30 collabora anche con giornali e periodici locali sulle pagine dei quali illustra monumenti ed opere d'arte.
Nel 1931 la commissione della Via Crucis per la chiesa di S. Faustino diventa un’occasione per approfondire l’arte di Giandomenico Tiepolo in una personale interpretazione dell’opera del grande e ammirato Maestro nel ciclo dell’oratorio della chiesa di S. Polo ai Frari.
L'anno successivo espone una trentina di dipinti alla Galleria Campana. II recensore del "Popolo di Brescia" rileva che l'artista "sembra impegnato in una lotta di affinamento che se dona un nobile umanismo alla sua arte, toglie irrimediabilmente ad essa i caratteri della spontaneità". Se soprattutto sul versante del colore, c'e "una sorta di tormento per piegare, ridurre, sforzare la materia in modo da esaudire il desiderio dell'artista": un "difficoltosissimo esercizio", che "ha condotto il Mutti ad una tecnica talmente brillante ed agguerrita da poter entrare nella sfera di un sommo virtuosismo".
Nel 1934 Mutti fa parte, con il direttore di Brera Aldo Carpi ed il critico Enrico Sommarè, della Commissione giudicatrice del Premio Magnocavallo. Sono anni di lavoro intenso e discussioni appassionate sull'arte moderna con gli amici Cantoni, Vecchia e Vicari che avvenivano principalmente in alcune trattorie tra cui “Alla Pace” in via Mazzini, di Enrico (Nico) Invernici (1877-1955), dove Mutti conobbe anche il giornalista Carlo Belli (1903-1991), autore di “kn”, volume considerato il manifesto dell’astrattismo italiano.
I dibattiti si riflettono anche negli interventi dei critici: in occasione della Sindacale d'arte del dicembre 1934, Pietro Feroldi (1881-1955) dalle pagine del “Popolo di Brescia” diede un duro giudizio sulla sua pittura, sorretta a suo dire da una "tavolozza ingioiellata" ma colpevole di "volersi appartare dai problemi di attualità, respinti in pieno"; "attratto dalla fastosità del colore a tutte le acrobazie, crede di poter assumere a esempio la libertà del Settecento esercitata non soltanto nella forma, ma approfondita nel contenuto". L'attacco lo amareggia profondamente. Smette di partecipare a mostre e, per un certo periodo, perfino di dipingere, preferendo collaborare con Cesare Campana alla conduzione della sua galleria di antiquariato. E’ il segno di un carattere non incline ad addolcire le proprie idee: "Mio padre - ricorda il figlio Giacomo - aveva l'apparenza tranquilla, ma possedeva una forte personalità. Sulle sue convinzioni non cedeva: era un uomo vero, che ha affrontato con serietà la professione di pittore, con l'ansia costante di riuscire fino in fondo a raggiungere i risultati che aveva in mente".
Continuerà comunque a rivestire un ruolo importante nella vita culturale bresciana. Nel 1938 partecipa all'allestimento della IV Sindacale d'arte al Quadriportico di piazza Vittoria. Nel 1942 viene chiamato a far parte della commissione presieduta dal conte Fausto Lechi per l'assegnazione dei premi Magnocavallo e Bettoni-Cazzago.
Nel 1943 ospita nella propria casa, incurante del pericolo, l’amico Silvio Barbieri, appena uscito dal carcere dove era stato rinchiuso per propaganda antifascista.
Dopo il luglio del 1944 per sfuggire ai bombardamenti si trasferisce a Ome, poi a Prevalle e a Vello di Marone.
Passato l'aprile del 1945, rientra in città e nello studio in palazzo Fe d'Ostiani di corso Matteotti, ricomincia anche l'attività artistica.
Torna a frequentare gli amici alle trattorie "La Pace" di via Mazzini e "II Cantinone" di Tita Dondelli, punti di ritrovo di intellettuali, dove stringe una nuova amicizia con Pietro Dogini (1888-1967), imprenditore e collezionista originario di Volta Mantovana, senza ancora partecipare a mostre.
Solo nel 1952 partecipa al Premio Brescia e nel 1953 ad una mostra collettiva all’Associazione artisti bresciani.
All’inizio del 1954 viene duramente colpito dalla morte prematura della moglie Ilda ma con il sostegno degli amici e della sua forza d’animo trova le motivazioni per continuare a lavorare, dando vita a “una seconda stagione di maturità” (Mazza).
Il figlio Giacomo, architetto, si sposa nel 1956 con Giovanna Francesconi e dopo la nascita dei due figli, Filippo e Ilda, progetta la casa sulle pendici del Cidneo, sotto il monastero di San Pietro in Oliveto, nella quale va ad abitare con il padre nel 1962, per il quale predispone un bellissimo studio descritto qualche anno dopo da Attilio Mazza (1935-2015) nel libro 28 studi di artisti bresciani: “Gli elementi principali di questo moderno e razionale luogo di lavoro sono il cielo e l’aria. Grazie alle grandi finestre – quasi pareti di vetro – il verde ed il panorama della città sembrano far parte dell’ambiente”.
Dal 1964 l’Associazione artisti bresciani – della quale il figlio Giacomo sarà presidente negli anni Settanta – ospita sue mostre personali. In occasione di quella del 1968 delegazioni delle comunità di Brescia e Bergamo gli conferiscono una medaglia d'oro, ancora una volta su iniziativa dell'amico di una vita, Silvio Barbieri.
Sono anni di rinascita artistica in cui senza vincoli espressivi o di mercato sviluppa una pittura sempre più libera, “una pittura che forse sarebbe piaciuta anche al Feroldi” (Mazza), in cui oltre ai ritratti (in particolare dei nipoti: Filippo e soprattutto della amatissima Ilda) trovano sempre più spazio i paesaggi, fiori e nature morte.
Dal gennaio 1969 e fino al 1975 espone annualmente all'Aab con il gruppo dei "Sette pittori della realtà" (con lui Franco Bertulli, Gabriel Gatti, Piero Galanti, Angelo Fiessi, Martino Dolci e Dino Decca); una realtà, la loro - precisa Elvira Cassa Salvi in occasione della prima rassegna -, "amabile e domestica, a modo suo, non per paradosso, astratta, lontana dalla realtà dura, aggressiva dei giorni nostri, avvolta nelle dimensioni soavi della memoria e del sogno, affidata all'affetto, allo scrupolo, alla fedeltà di alcuni tra i più convinti e valenti custodi d'una civiltà pittorica serena e benevola, devota allo stile e alla tecnica dell’Ottocento nostrano”.
Stimato e onorato con premi e riconoscimenti, è ormai riconosciuto come un maestro, punto di riferimento di giovani e meno giovani pittori bresciani.
Nei primi anni Settanta, frequenta con assiduità la Galleria S. Gaspare di Gigi Cremonesi, vicino alla chiesa di San Giuseppe, dove incontra vecchi e nuovi amici, tra cui Tita Mozzoni (1894-1986), collezionisti e mercanti che gli chiedevano di periziare opere soprattutto dell’Ottocento bresciano di cui era profondo conoscitore.
Racconta Luciano Anelli: «Certi giudizi su pittori del recente passato (che d'altronde conosceva benissimo, e sovente aveva anche frequentato) erano lapidari, ma quasi sempre coglievano nel segno: Cresseri era un "instancabile" ed innamorato dei veneti e del Tiepolo, Lombardi "un poeta del colore", Castelli "il più fine di tutti", Bertolotti molto bravo nel "costruire" i paesaggi, Filippini lo vedeva come qualche cosa di inarrivabile, ed il suo bel volto s'illuminava quando ne parlava...».
Negli stessi anni esplora i dintorni di Brescia accompagnato da giovani pittori, alla ricerca di paesaggi; Eugenio Busi ricorda: “Partenza da casa sua dove andavo a prenderlo, non troppo di buon mattino, e poi via per la nostra provincia a cercare il soggetto. Più che altro ero io a scegliere il soggetto, a lui andava bene tutto: quattro pennellate e risolveva con grande maestria ciò che io non avrei mai dipinto”.
Nel 1971 riceve dalle mani del sindaco Bruno Boni la “Vittoria alata” unitamente a ai pittori Angelo Fiessi e Piero Galanti, del dicembre dello stesso anno si tiene la mostra “Mutti e la sua Brescia” presso la Galleria San Gaspare.
Nel gennaio del '76 espone alla Galleria Bistrò: "La mostra – scrisse Spiazzi - è ancora una volta la dimostrazione della sua capacita d'armonie serene nella visione di scorci caratteristici di città e provincia. Verdi, bruni, azzurrini, guizzi di bianco, le note di una quiete ogni volta raggiunta e assaporata goccia a goccia".
Nel 1977 si tiene presso lo Studio G7 di Bovezzo l’Antologica dal 1930 al 1977; nel 1979 presso la Permanente S. Michele l’ultima personale in vita.
Una volta, negli ultimi tempi, Spiazzi aveva chiesto a Mutti se non avesse rimpianti. Lui si era rammaricato del fatto che gli riusciva sempre più difficile ritrarre i bambini: "Veramente un rimpianto perche nei bimbi vive in naturalezza tutta la poesia che i grandi cercano poi faticosamente di recuperare".
Muore a 87 anni, il 25 aprile 1980.
Numerose iniziative, dopo la scomparsa, ne hanno rinnovato periodicamente il ricordo. Nel 1983 la Galleria S. Gaspare dedica una mostra ai suoi "cascinali". Scrive Spiazzi in quell'occasione: "A differenza delle generazioni succedute alla sua egli credeva a fondo nel magistero artistico e non accettava sperimentalismi che potessero metterne in dubbio i valori. Anche per questo la piccola antologica sulle case di campagna seminascoste dal verde assume una valenza tutta particolare, essendo una partitura musicale autentica, germinata da fiducia e fedeltà".
Del 1990 è la grande antologica dell'Aab, voluta dal figlio: "Con il suo rigore - disse Giacomo Mutti - mio padre mi ha insegnato ad essere coerente, puro nei sentimenti e nelle idee".
Nel 1999 Città Antiquaria gli dedica una nuova mostra antologica. Nel maggio 2001, sue opere vengono incluse nella mostra dell'Aab "Arte a Brescia negli anni Venti e Trenta", curata da Giovanna Capretti e Carlo Zani. Alla fine dell'anno precedente, l'Amministrazione cittadina guidata dal sindaco Paolo Corsini aveva deliberato di intitolare al pittore una via.
Nel 2011 l’ultima mostra antologica a cura dell’Associazione Martino Dolci, da anni impegnata a mantenere viva la memoria dei pittori bresciani, allestita a Palazzo Martinengo e corredata di un ricco catalogo.
Filippo Mutti
La presente biografia, oltre che ai personali ricordi, ha abbondantemente attinto ai numerosi scritti di Attilio Mazza nonché ai testi di Nicola Rocchi e Luciano Anelli contenuti nel catalogo della mostra antologica del 2011 curata dall’Associazione Martino Dolci.